«La volontà di vivere divora perennemente se stessa, ed in diversi aspetti si nutre di s黹.
Qual è il significato dell’”infine” nel titolo del nuovo libro di Paolo Spinicci? Presentato ieri 17 febbraio 2017 alla Fabbrica dell’Esperienza di Milano, con l’autore, Gianfranco Mormino, e Mauro Bonazzi, tra il profumo di un piccolo teatro e il calore di un’accoglienza amica ed entusiasta, sembra soddisfare l’attesa di Penelope, Itaca, infine. Saggi sull’Odissea e la filosofia dell’immaginazione , edito da Mimesis. Le sue pagine ripercorrono e interpretano la storia di Polifemo, il ciclope ingannato da Ulisse.
La storia di Polifemo e un avverbio
L’avverbio "infine" indica una conclusione, un traguardo, e il raggiungimento forse anche di un fondo, di un profondo. Itaca è la meta ultima, e la ritroviamo, solida, nel titolo di Spinicci. Ma il tema dei suoi saggi “si perde” nell’antro buio di una caverna. Suggerisce l’opposizione tra trovare e perdersi, in una sovrapposizione di fisicità del luogo e scorrere del tempo.
Se il viaggio verso Itaca rimanda alla linearità dello spazio e del tempo, al “trovare”, l’avventura nella grotta del ciclope assume il senso di un ritorno al passato, a una dimensione primigenia che è animalità, vita senza forma, brulichio di larve. Polifemo non lavora la terra, bensì ne coglie i frutti che nascono spontaneamente. Non conosce leggi. È solitario. Viene prima della socialità che caratterizza la storia, la cultura.
«Avea qui stanza un uom di smisurata
Statura e forza, detto Polifemo,
Che pasturava le belanti greggie
Lontan dagli altri, e che nessun con gli altri
Avea commercio, ma nel suo recinto
Scellerate e nefande opre compia:
Orribil mostro, in nulla somigliante
All’uom che frutto cereal consuma».
Omero, Odissea, traduzione di Paolo Maspero, Firenze Successori Le Monnier, 1906, vv. 217 – 224 pp. 218 – 219.
«Un grand'otre io ne presi, ed un canestro
Di vivande, perché diceami il core
Che un uom feroce, di tremenda possa,
Sprezzator d’ogni diritto e d’ogni legge,
Avrei quivi incontrato».
Ivi, vv. 249 – 253 p. 219.
Infine, un ritorno
Ulisse si ferma ed esita sulla soglia della grotta di Polifemo perché allo stesso tempo è attratto e atterrito dalla vita senza forma che sa di trovarvi. Si tratta di un ribollire che rappresenta la ciclicità della natura che si nutre di se stessa. La caverna e il ciclope trasfigurano in un'unica realtà, un grande ventre, una grande bocca, che divora la vita e la restituisce, come Polifemo sbrana i compagni di Ulisse e li vomita, dopo aver bevuto il vino senza conoscere il rito del bere.
«Ciò detto, stramazzò supino a terra;
E, piegata su l’omero la testa,
Addormentossi. Ad or ad or ruttando
Brïaco il mostro, dalle fauci il sangue
E il vino gli sgorgava, a brani misto
D’umane carni».
Ivi, vv. 439 – 444 p. 226.
Quell’”infine” potrebbe, dunque, aver una valenza duplice. Da una parte, il sollievo del ritorno; dall’altra, l’esperienza della vita primigenia, senza forma, che sta prima delle singole vite, che sta in basso, nel sotterraneo, che viene relegata all’oscurità con il gesto dell’accecamento del ciclope.
¹Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. di Paolo Savj - Lopez e Giuseppe De Lorenzo, Laterza, 2013, § 27, p. 173.