A ottobre dell’anno scorso ho iniziato a frequentare il corso serale di scrittura creativa della scuola Belleville di Milano, con Marco Rossari e Marcello Fois. Il compito assegnato alla fine della prima lezione è stato scrivere un racconto breve a tema libero. Nel mio caso, forse si potrebbe dire che ne sia venuto fuori un racconto breve horror. Per due ragioni: perché l’argomento è un po’ indigesto, e perché senz’altro la storiella è imperfetta, e potrebbe essere migliorata da chi è un mago della narrazione.
Il mio piccolissimo racconto “horror” risale, dunque, all’autunno 2019. Solo per caso fa riferimento a un tema che ora colpisce tutti, quello del contagio, per la pandemia da coronavirus che ci troviamo ad affrontare. Nelle poche righe che ho scritto, c’è il riferimento alla recente epidemia di ebola nella Repubblica Democratica del Congo. Ma il nodo della minuscola narrazione è l’ipocondria.
Epidemia
Ariel si avvicinò allo specchio per osservare il rosso sotto l’occhio destro. La pelle era enfiata e traslucida. I margini slabbrati della macchia avevano intorno pori zeppi di impurità. Sebo, cellule morte, microorganismi di origine non identificata, batteri, funghi, virus, l’intero microcosmo organico, purulento e nauseabondo.
Nelle narici persisteva la puzza di alcol che aveva strofinato il giorno prima per tutta la casa. Le lenzuola e i vestiti li aveva lavati con due tappi dosatori di Napisan. Piatti, pentole, posate e bicchieri erano stati sottoposti a un triplo programma intenso della lavastoviglie.
Un virus della famiglia dei Filoviridae
La prima pagina di Repubblica campeggiava luminosa sul tablet sopra il tavolo del soggiorno. In Congo c’era l’ebola. Ariel aveva deciso di restarsene a casa dal lavoro. Indossava i guanti in ufficio, ma con un virus della famiglia dei Filoviridae, le precauzioni abituali contro le malattie infettive non bastavano.
«Visti da vicino, gli esseri umani sono tutti brutti», pensò, spostando la pelle su e giù con la punta dell’indice, pigiato proprio sotto il foruncolo. «A Milano, con tre aeroporti vicini, siamo in pericolo». La testa le pulsava. Sentì il cranio stritolato come da pistoni sulle tempie, le mani gelide, il respiro mozzato, i conati di vomito.
«È ebola», si disse. «Il virus ha infettato il mio occhio». Immaginò che si sarebbe ricoperta di petecchie nel giro di poche ore, mentre i suoi organi interni avrebbero iniziato a disfarsi. Sedette sul pavimento, la spina dorsale sporgente contro il muro, la testa tra le mani. Non avrebbe aspettato le lungaggini dei medici. Doveva intervenire.
Si ricordò del piccolo coltello affilato che usava per tagliare le cipolle, dopo averle disinfettate con l’amuchina. Lo prese e tornò allo specchio. Nel Medioevo incidevano e drenavano i bubboni della peste.