Un po’ fata un po’ strega, la Befana è una figura ambivalente, dalla doppia faccia, allo stesso tempo benevola e maligna. La sua leggenda è legata al territorio e in ogni regione italiana il personaggio viene caratterizzato in modo diverso. Ma che cosa succede se la Befana diventa una signora elegante, alta come una giraffa, che di giorno passeggia in città e di notte vola con una vecchia scopa? Scoprilo nel mio racconto.
La leggenda della Befana e del motore
All’ultimo piano del grattacielo più alto della città abitava una vecchia signora. Era corpulenta come un ippopotamo e aveva tutti i capelli grigi. Ogni pomeriggio passeggiava per le vie del centro con falcata da puma, altezza da giraffa, eleganza da levriero afgano, avvolta in un tailleur, sotto un mantello di lana d’inverno, un soprabito pastello d’estate.
A casa aveva un grande armadio pienissimo di scope. Ce n’erano di nuove, all’ultima moda, con i manici luccicanti, gialli, rossi o celeste. Ma la sua preferita era la scopa più vecchia, dal lungo manico in legno di noce, con dorate setole di saggina strette insieme da un nastro color ciliegia. Era la compagna dei voli più belli, che la vecchia signora faceva nelle notti gelate, quando gli abeti spuntano sotto la neve come baffi neri sotto al naso.
In un angolino dell’armadio, spiegazzato e rattrappito come un uccellino appena venuto al mondo, era appeso uno strano costume logoro, qua e là bucherellato. Un cappuccio rosso penzolava floscio giù dall’appendino, sotto a una casacca grigia, che reggeva a sua volta una larga gonna scura tutta rattoppata. Sul fondo del mobile c’erano anche le scarpe, così puzzolenti e consumate che avevano fessure e forellini sulla tomaia e intorno alle suole.
Una volta all’anno la vecchia signora usava il costume per portare doni e dolcetti ai bambini buoni, carbone e spicchi d’aglio a quelli frignoni. Preparava due grandi sacchi, uno con del ben di Dio, l’altro con cenere e bulbi. Alla fine del lavoro controllava che la scopa prediletta fosse in ordine, indossava il costume, gli occhialini da volo e le scarpe bucate, bilanciava per bene i sacchi sulla ramazza, spalancava la finestra del salotto e decollava, a cavalcioni sul manico, con le setole di saggina a far da propulsore.
Continuò così per molti anni. E portava sempre più carboni e spicchi d’aglio che biscotti, cioccolate e regalini. Perché la divertiva punire i bimbi frignoni. Ma un anno non ebbe tanto da sghignazzare e tornò a fatica nel bell’attico del centro, tra magie, maschere e maledizioni. Piccine e piccini ribellarsi non possono, ma qualche volta per loro lo fanno le cose.
Com’era tradizione, la vecchia signora aveva fatto due enormi pacchi, entrambi di iuta resistente e ruvida, ben chiusi con lo spago più robusto dell’epoca. La finestra già spalancata incorniciava il buio e lasciava entrare refoli di gelo con minuscoli cristalli di neve. Pronta alla navigazione, la vecchia signora ci si gettò, accendendo il motore della scopa di saggina.
Il freddo le sferzò le gote, le goccioline ghiacciate danzarono sul cappuccio rosso, la luce della luna disegnò una striscia d’argento. Un ippopotamo alto come una giraffa passava sullo sfondo delle vette e delle stelle. Il manico segnava la rotta, le setole rombavano e facevano da timone.
Tutto andò senza intoppi fino a metà viaggio, quando la vecchia scopa si fermò di colpo. Sobbalzò su e giù come una molla anchilosata, sibilò come una vipera, si accasciò nell’aria come un nugolo di particelle marroncine e ristette in mezzo al cielo nero.
La scopa era fatata, e quindi non cadeva. Ma la povera vecchia signora non aveva allenamento per tenersi salda sul velivolo, in equilibrio a mille piedi di quota. Così, subito dopo l’arresto improvviso, la prima cosa che fece fu un involontario angolo giro attorno all’asse del manico, ululando a labbra socchiuse e protese:«Uuuuuuuuuuuuuuu».
Tornata in sella, ebbe pace solo un istante e ripartì in un angolo giro dal lato opposto, stavolta alalando a bocca spalancata: «Aaaaaaaaaaaaaaa». L’«Eeeeeeeeeeeeeee» lo proferì con le guanciotte rugose protese verso gli orecchi e gli occhi pieni di terrore. Al quarto giro l’«Iiiiiiiiiiiiiii» le smosse il naso sulla faccia, lo ingrossò e lo fece più storto e adunco come un becco. Al quinto l’invase il triste stupore per il suo destino tondo e la bocca da pesce gridava: «Ooooooooooooooo».
Mentre si aggrappava a tutte le vocali, i pacchi ben chiusi persero a poco a poco gli appigli, e carboni, agli, doni e dolcetti non poterono più aggrapparsi a niente. I pacchi si schiusero come uova calde di gallina e il contenuto iniziò, pezzo per pezzo, a cadere.
Ma non cadde tutto, di tonfo in tonfo, in un sol punto, come succede con le padelle di ghisa e i vasi di coccio. Cadde piano, cadde volando, ogni regalo portato dal vento, ogni carbone addolcito dai fiocchi di neve. E così, ruzzolando tra folate, refoli, raffiche e sbuffi dell’aria danzante dell’inverno, regali e carboni arrivarono a tutti i bambini, ma a ciascuno in parti uguali, un tizzone e un dono, un aglietto odoroso e un dolcetto delizioso.
Con il carbone bambine e bambini disegnarono, con i piccoli giocattoli giocarono, con i biscotti fecero merenda, con l’aglio chiesero ai genitori un soffritto per il sugo della pasta.
La vecchia signora, che era solo bizzosa e non tanto cattiva, rischiò di passare il resto dell’eternità a girare come uno spiedo sotto il cipiglio della luna. Ma tra un giro di vocali e un giro di gradi, aggiustò il motore della scopa e sul fare dell’alba rientrò dalla finestra in cima al grattacielo.
Da allora, per le consegne dell’inverno, prepara un unico sacco di carboni e dolcetti per tutti i bambini, buoni e frignoni. La tiene ben ferma in caso di guasto al motore.
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